Hugo Chàvez

“Come in se stesso infine l’eternità lo cambia” (1), Hugo Rafael Chávez Frías, scomparso il 5 marzo in piena gloria politica, si unisce a partire da ora e per sempre, nell’immaginario degli umili dell’America latina, alla piccola coorte dei grandi difensori della causa dei popoli: Emiliano Zapata, Che Guevara, Salvador Allende.

E’ stato senza dubbio il leader politico più celebre del suo tempo. Il che non significa che il suo pensiero e la sua opera siano stati riconosciuti. Perché era anche il leader più odiosamente attaccato e demonizzato dai grandi mezzi di comunicazione dominanti. Se la sua traiettoria politica, da quando è arrivato al potere in Venezuela nel 1999, è stata relativamente ben studiata, la stessa cosa non accade con i periodi precedenti della sua prima vita. Come nasce Chávez? Dove si è formato? Che influenze ha ricevuto? Quando decise di prendere il potere? Questi aspetti della sua apparizione, è quel che vorremmo ricordare qui.

Al principio, nulla lasciava intendere per Hugo Chávez  un destino tanto singolare. In effetti, venne al mondo all’interno di una famiglia molto povera in un angolo tra i più oscuri del “lontano ovest” del Venezuela, a Sabaneta, una piccola città degli Llanos, le infinite pianure che si estendono ai piedi delle Ande. Quando nacque, nel 1954, i suoi genitori non avevano compiuto vent’anni. Insegnanti precari in un remoto villaggio, sottopagati, dovettero affidare i loro primi due figli (Hugo e il suo fratello Adán) alla nonna paterna dei bambini. Rosa Inés, meticcia afro-indigena, li allevò fino all’età di quindici anni. Persona molto intelligente, molto pedagogica, dotata di una notevole sensatezza e traboccante di amore, questa nonna ha avuto un’influenza decisiva sulla formazione del piccolo Hugo.

Appena fuori dal paese, Rosa abitava una casa amerindia con il pavimento di terra battuta, i muri di adobe (fango pressato, ndt) e con il tetto di foglie di palma. Senza acqua corrente, senza elettricità. Priva di risorse, viveva della vendita di alcuni dolci che essa stessa preparava con la frutta del suo piccolo giardino. Così che, fin dalla prima infanzia, Hugo imparò a lavorare la terra, potare le piante, coltivare il mais raccogliere i frutti, occuparsi degli animali. Si impadronì del sapere agricolo ancestrale di Rosa Inés. Partecipava a tutti i lavori di casa, andava a prendere l’acqua, spazzava la casa, aiutava a fare i dolci. E, a sette o otto anni, andava a venderli camminando per le strade di Sabaneta, gridando alle uscite del cinema, al bocciodromo e al mercato.

Questo paese, “quattro strade di terra – avrebbe raccontato Chávez – che, in inverno, si trasformavano in pantani apocalittici” (2), rappresentava, per il giovane Hugo, tutto il mondo. Con le sue gerarchie sociali: i “ricchi” nella parte bassa del paese in edifici in pietra di vari piani: i poveri sui versanti della collina in capanne coperte di paglia. Con le sue differenze etniche e di classe: le famiglie di origine europea (italiani, spagnoli, portoghesi) possedevano i commerci principali così come le poche industrie (segherie), mentre i meticci costituivano la massa della forza lavoro.

Il suo primo giorno di scuola rimase per sempre impresso nella memoria di questa “piccola cosa” (3) venezuelana: fu espulso perché indossava sandali di canapa e non scarpe in pelle come era d’obbligo … Ma seppe prendersi una vendetta. La nonna gliaveva insegnato a leggere e scrivere. E molto rapidamente si impose come il migliore allievo della scuola, diventando il beniamino delle maestre. Al punto che, durante una visita solenne del vescovo della regione, fu scelto dagli insegnanti perché leggesse il saluto di benvenuto al prelato. Il suo primo discorso pubblico.

La nonna gli parlò molto anche della storia. Gli mostrò le sue tracce a Sabaneta: il grande albero antico all’ombra del quale Simón Bolivar riposò prima della sua traversata delle Ande nel 1819; e le strade che ancora echeggiavano del galoppo feroce dei fieri cavalieri di Ezequiel Zamora quando passarono di lì diretti verso la Battaglia di Santa Inés nel 1859. Così, il piccolo Hugo crebbe all’ombra del culto di questi due personaggi: il Libertador, padre dell’indipendenza, e l’eroe delle “guerre federali”, fautore di una riforma agraria radicale a favore dei contadini poveri, il cui grido di battaglia era “Terra e uomini liberi!”. Di più, Chávez seppe che uno dei suoi antenati era stato coinvolto in quella famosa battaglia e che il suo nonno materno, il colonnello Pedro Pérez Delgado, detto Maisanta, morto in carcere nel 1924, era un guerrigliero molto popolare nella regione, una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per sfamare i poveri.

Non c’è nessun determinismo sociale automatico. E Hugo Chávez , con questa stessa infanzia, avrebbe potuto avere un destino del tutto diverso. Ma accadde che, fin dalla più tenera età, la nonna gli instillò forti valori umani (solidarietà, aiuto mutuo, onestà, giustizia). E gli trasmise quel che potrebbe essere definito un forte senso di appartenenza di classe: “Ho sempre saputo dov’erano le mie radici – dirà Chávez  -, nelle profondità del mondo popolare, da lì vengo. Non l’ho mai dimenticato” (4).

Quando entra nella scuola superiore, il giovane Hugo lascia Sabaneta e si sistema a Barinas, la capitale dello stato omonimo. Siamo nel 1966, la guerra del Vietnam è sulla prima pagina di tutti i giornali e Che Guevara morirà di lì a poco in Bolivia. Anche in Venezuela, dove viene restaurata la democrazia nel 1958, abbondano le guerriglie; molti giovani si uniscono alla lotta armata. Ma Chávez  è un adolescente che non si interessa di politica. A quel tempo, le sue tre ardenti passioni sono: gli studi, il baseball e le ragazze.

Fu un liceale brillante, soprattutto nelle materie scientifiche (matematica, fisica, chimica). Amava fare corsi di recupero per o compagni meno dotati. Nel corso del tempo, acquisirà grande prestigio nella sua scuola grazie ai suoi buoni voti e al senso di cameratismo. Le diverse organizzazioni politiche del liceo – tra le quali quella di suo fratello Adán, militante di estrema sinistra, si combattevano per reclutarlo. Ma Chávez  pensava solo al baseball. Era letteralmente ossessionato da questo sport. E fuun temibile “pitcher” (lanciatore) mancino, e partecipò con successo ai campionati scolastici. Perfino la stampa locale parlava di lui, dei suoi successi sportivi. Il che aumentava la sua prestigio personale.

Nel corso di questi anni di scuola, la sua personalità si consolidò, si affermò. Era una persona sicura di sé, si esprimeva bene in pubblico, aveva dell’umorismo e si sentiva a suo agio ovunque. Divenne quello che noi chiamiamo un “leader naturale”, primo della classe ed eccellente nello sport. E siccome voleva diventare un professionista del baseball dopo aver ottenuto la maturità, scelse di affrontare l’esame di ammissione all’Accademia militare, perché lì c’erano i migliori allenatori del paese. Lo passò. E così, nel 1971, il giovane che veniva da una lontana provincia arrivò a Caracas, capitale tanto futurista e terrorizzante ai suoi occhi quanto la Metropolis di Fritz Lang.

Le questioni militari lo appassionarono immediatamente. Dimenticò il baseball. Chávez si dedicò anima e corpo agli studi militari. Questi erano appena stati riformati. Ora l’Accademia ammetteva solo diplomati. Anche il corpo docente era stato rinnovato. Vi insegnavano ufficiali superiori considerati “meno sicuri” o “più progressisti” da parte delle autorità che rifiutavano di porre truppe sotto i loro ordini, ma non avevano esitato ad affidare loro la formazione dei futuri ufficiali. Dal 1958, dopo la caduta del dittatore Marcos Pérez Jiménez, i principali partiti. in particolare Azione Democratica (socialdemocratico) e Copei (democristiani) – aveva stabilito un accordo tra loro, il patto di Punto Fijo, e aveva gestito il potere alternativamente. La corruzione era generale. Nel 1962, scoppiarono due ribellioni di ufficiali, alleati a organizzazioni di estrema sinistra, a Puerto Cabello e a Carúpano. Altri militari si unìrono alle varie guerriglie sulle montagne. La repressione fu atroce. Le esecuzioni sommarie, le torture e le “sparizioni” divennero moneta corrente. La presenza di rappresentanti degli Stati Uniti era molto evidente, non solo nei siti petroliferi, ma all’interno stesso dello Stato Maggiore delle Forze Armate. La Cia inviò vari agenti e aiutò a perseguitare gli insorti.

Chávez  assorbì letteralmente l’insegnamento teorico che riceveva all’Accademia. Uno dei suoi professori, il generale Pérez Arcáis, grande specialista di Ezequiel Zamora, esercitò un’influenza decisiva su di lui. Lo educò al bolivarianismo. Chávez lesse l’intera opera di Bolívar. La imparò a memoria. Era in grado di riprodurre in dettaglio su una mappa, con gli occhi chiusi, la strategia di ciascuna delle sue battaglie. Lesse anche a Simón Rodríguez, l’enciclopedista insegnante di Bolívar. E presto sviluppò la sua teoria delle “tre radici”: Rodríguez, Bolívar e Zamora. Dai testi politici di questi tre autori venezuelani ricavò le tesi dell’indipendenza e della sovranità, della giustizia sociale, dell’inclusione, dell’uguaglianza e dell’integrazione latinoamericana. Tesi che divennero i pilastri principali del suo progetto politico e sociale.

Chávez  possedeva una mente scientifica e una memoria enorme. Non tardò a diventare uno dei migliori studenti e il “leader” dei cadetti dell’Accademia. Leggeva Garcìa Màrquez, Nietzsche e soprattutto Plechanov (solo dopo l'elezione rivelò di aver letto anche Marx e Lenin). Cominciò a frequentare, al di fuori dell’Accademia, vari circoli politici di estrema sinistra: il Partito comunista (Pcv), La Causa R, il Movimiento Izquierda Revolucionaria (Mir), il Movimiento al Socialismo (Mas). Si incontrava clandestinamente con i loro dirigenti. Di nuovo, ognuno di loro cercò di reclutarlo nella sua organizzazione, dato che infiltrarsi nell’esercito era sempre stata un ambizione della sinistra. Dopo aver studiato bene le ribellioni militari in Venezuela, Chávez si convinse che era possibile prendere il potere per farla finita con la povertà endemica. Ma l’unico modo di evitare derive “gorilistas” (dittature militari) era creare un’alleanza tra le forse armate e le organizzazioni politiche di sinistra. Questo sarà la sua idea di base: la “unione civico-militare”.

Studiò quindi l’esperienza al potere dei militari rivoluzionari di sinistra in America Latina, in particolare: Jacobo Arbenz in Guatemala, Juan José Torres in Bolivia, Omar Torrijos a Panama e Juan Velasco Alvarado in Perù. Incontro ques’ultimo a Lima, durante un viaggio di studio, nel 1974, ne fu fortemente impressionato. Tanto che, venticinque anni dopo, una volta al potere, fece pubblicare la Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela, approvata con un referendum nel 1999, nello stesso formato e colore del famoso “piccolo libro blu” di Velasco Alvarado.

Chávez  era entrato nell’Accademia Militare senza la minima cultura politica, ma ne uscì quattro anni più tardi, nel 1975, all’età di 21 anni, con una sola idea in mente: farla finita con il regime ingiusto e corrotto, e rifondare la Repubblica. Da quel momento, tutto era molto chiaro. Sia politicamente che strategicamente. Aveva in sé il progetto bolivariano di ricostruzione del Venezuela.

Ma la sua apparizione avrebbe dovuto aspettare venticinque anni. Venticinque anni di cospirazioni silenziose all’interno delle forze armate. E l’effetto di quattro eventi decisivi: la grande rivolta popolare – il “Caracazo” – contro la terapia d’urto neoliberista nel 1989 (5), il fallimento della ribellione militare nel 1992, la feconda esperienza di due anni di carcere, e il decisivo incontro, nel 1994, con Fidel Castro. Da lì in poi, la sua vittoria elettorale era ineluttabile (nel 1998 vince le elezioni con il 56%), perché come affermava Hugo Chávez, citando Victor Hugo, “non c’è niente al mondo più potente di un’idea per la quale è arrivato il suo tempo”.

 

Note

(1) Verso di Stéphane Mallarmé, estratto da Le Tombeau d’Edgar Poe (1877)

(2) Conversazioni con l’autore.

(3) Cfr. Alphonse Daudet, Little Thing (1868), un romanzo autobiografico.

(4) Conversazioni con l’autore.

(5) Dettata dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e imposta dal presidente socialdemocratico Carlos Andrés Pérez, questa “terapia d’urto” fu un vero e proprio piano di aggiustamento strutturale che si tradusse in misure di austerità, lo smantellamento dell’embrione di Welfare State e la crescita dei prezzi dei beni di prima necessità. Il 27 febbraio 1989, la popolazione di Caracas si ribellò. E’ stata la prima ribellione al mondo contro le politiche neoliberiste. Il governo “socialista” ricorse all’esercito. La repressione fu feroce: più di 3000 morti. Hugo Chávez dirà: “La gente ci precedette. E il governo utilizzò i militari come fossero un esercito di invasione del Fmi contro i nostri stessi cittadini”.

* Editoriale del numero di aprile della versione in spagnolo di Le Monde diplomatique (tradotto da DKm0) e revisioni/aggiunte a cura del Bardo