Comandante Diavolo

Amedeo Guillet, a 101 anni di età, è uscito dalla leggenda per entrare nella storia: la sua morte, avvenuta il 16 giugno 2010, ne consegna l'eccezionale figura ai posteri. E grazie alle cure e alle ricerche negli archivi della dottoressa Rosangela Baronelo si potrà comprendere meglio la sua esistenza avventurosa. Non era facile ma necessario farlo, per ridare a un personaggio straordinario il posto che gli appartiene – e che altri studieranno – nella storia d'Italia, del mondo arabo ed ebraico, nella diplomazia e nel pensiero militare.

Parlare di lui come di un Lawrence d'Arabia italiano è uno dei miti da sfatare. Anzitutto perché, se cosi fosse, si tratterebbe di un Lawrence d'Africa. Poi perché è uno sminuire le sue gesta.
Lawrence aveva dietro di sé un impero ricco e vittorioso; Guillet un impero vinto e senza risorse. Lawrence pagava in sterline d'oro e con la razzia la cooperazione dei beduini contro l'esercito turco; Guillet, su cui pesava una taglia di mille sterline, combatté per 14 mesi le forze britanniche in Eritrea con un pugno di indigeni a cui aveva proibito persino di appropriarsi di una gallina e che lo seguivano, nella miseria, per pura lealtà al leader e per fratellanza umana. Valori che testimoniano della sue qualità d'animo ma anche di applicazione all'arte della guerra appresi da Clausewitz e Tucidide.

Fu certo un grande soldato che con la carica di "Cherù", in Etiopia, alla testa del Gruppo di Bande a cavallo «Amhara» permise la ritirata delle truppe italiane a Cheren, alla cui difesa partecipò aggiungendo alle altre la più dolorosa delle sue ferite. Dietro l'immagine stereotipata di «Comandante Diavolo» che gli avevano affibbiato i suoi uomini, e i suoi avversari sul campo di battaglia, c'era quella schiva del l'artista. Artista nell'arte dell'equitazione che lo aveva candidato alle Olimpiadi e nella quale aveva sviluppato un linguaggio equino con cui otteneva tutto dai cavalli.

Dotato di una memoria ferrea, recitava a memoria interi canti dell'Orlando Furioso. Era stato un ottimo pianista sino a tanto che una ferita alla mano limitò questo suo dono. Si scherniva delle sua capacità di pittore ma era un buon acquarellista. Non era né un asceta né un santo combattente. Possedeva innata l'umiltà dell'aristocratico che antepone il dovere al diritto. Questa umiltà che gli aveva permesso di vivere come venditore d'acqua fra i poveri di Massaua, lo aveva avvicinato all'Islam di cui ammirava la totale sottomissione al divino. Questa fede che Guillet aveva conosciuta in Libia studiando l'arabo coi bambini di una scuola indigena dava una dimensione mistica al suo senso di onore cavalleresco. L'onore che gli aveva impedito di accettare la resa e l'ingiustizia delle leggi razziali.

 

A Tripoli, nel 1938 dopo aver ammaestrato il cavallo su cui Mussolini aveva levato al cielo la «Spada dell'Islam» era andato a insegnare matematica e storia a ragazze ebree cacciate da scuola perché potessero affrontare l'esame di maturità. Fu un grande ambasciatore: nello Yemen, risolse uno scontro fra quel paese e l'Italia e salvò la vita all'Imam Badr, figlio di quel principe arabo Yahia che lo aveva accolto in fuga dagli inglesi. Nella Giordania, re Hussein lo considerò «zio». Nel Marocco, fu accanto a re Hassan durante un fallito colpo di Stato. In India amico della signora Ghandi, istruì la guardia presidenziale e moltiplicò il traffico commerciale fra i due paesi. All'Onu il suo intervento presso i delegati dei paesi arabi fu decisivo per il mantenimento dell'Alto Adige in Italia.

Tutta questa parte della sua vita è ancora da scrivere. Come la storia dei suoi tentativi di avvicinare Israele ai Palestinesi. Ne aveva parlato a Nasser come a Dayan; all'Imam Yahia come a Indira Ghandi; al Dalai Lama come a Carlo d'Inghilterra. Aveva messo a rischio la sua carriera militare nel 1946, nella sua qualità di capo degli affari arabi del Sim architettando la cattura del Mufti di Gerusalemme e prendendo contatto coi membri dell'Irgun esiliati dagli inglesi in Eritrea. Ambasciatore in Giordania visitò più volte Israele per perorare la causa dei yemeniti che combattevano le truppe di Nasser proponendo alla radio di Gerusalemme in lingua araba di sostenerli nelle sue emissioni.

In queste iniziative non autorizzate, come in altre di carattere umanitario, c'era una vena di donchisciottismo, sempre accompagnata da un realismo che permetteva «di frenare il cavallo prima del l'ostacolo per meglio farlo saltare». Non perdette mai la speranza in una soluzione pacifica del conflitto palestinese pur restando conscio che tanto lui quanto quella soluzione «appartenevano a un'epoca di passato patriottismo in attesa di un altro ancora da inventare».

 

Vittorio Dan Segre